Magfest   Il gusto delle arance   The Seven Kimgs

Varley / Sacco

Credere: presenza della memoria

di Julia Varley

Alla fine dello spettacolo Il gusto delle arance, Gabriella, l’attrice, rimane sola. Beve di fronte ad un posto vuoto, a cui fa segno di saluto. L’ombra creata dalla luce del fuoco si è esaurita. Torna il buio. Dopo le parole, l’amore e il lavoro, rimane la solitudine. È quello che sembra? Oppure questa solitudine è accompagnata da tutti gli altri incontrati o da incontrare, imbevuta del vissuto e del passato, pronta e disponibile? È una solitudine che, con tranquillità e pace della mente, calma e saggezza, ci dà speranze per continuare a vivere, oppure è il segno amaro, rinchiuso e spento della fine?

Creare Il gusto delle arance e dare corpo teatrale alle parole di poetesse mistiche con Gabriella Sacco, che si definisce devota, mi ha posto domande, professionali e non. Tutta la mia esperienza è legata alla presenza della persona in quanto corpo, materia. Ho cominciato a fare teatro per sentirmi unita e intera, per essere – attraverso l’azione – un tutt’uno di pensiero e movimento, di muscoli e sentimenti, sensazioni e immaginazione. Cos’è, allora, per me la trascendenza? A cosa credo? Cosa continua ad esistere nel momento in cui il corpo non c’è più?

In un vecchio pulmino percorro le infinite pianure argentine in viaggio da Buenos Aires a Paysandú, in Uruguay. Per passare il tempo chiacchiero con gli organizzatori che mi hanno invitato. Chiedo: “Perché fate teatro? Come avete cominciato?” Sono curiosa di sapere quali sono le motivazioni che li spingono a continuare in condizioni così difficili. Ognuno di loro lavora di giorno per guadagnare da vivere per sé e le loro famiglie, eppure si ritrovano regolarmente ogni sera al teatro per provare e presentare spettacoli. Vivono in una cittadina di provincia: molti chilometri li separano dai centri della cultura e dell’arte, dalla possibilità di ricevere informazioni, dalle librerie, da altri gruppi come il loro. Marcelo mi risponde: “È una bella domanda… non so. Ho visto uno spettacolo e poi mi sono messo a fare teatro anch’io. È come innamorarsi. È la necessità di un rituale. Il teatro è magico.”

Sono cresciuta in Italia. Appena arrivata, a tre anni, i miei genitori mi avevano mandato a un asilo francese di suore, probabilmente perché imparassi la lingua. Mi tolsero di lì appena si accorsero che cominciavo a mettere fiori davanti all’immagine della Madonna. Non rammento cosa mi spingeva a questo tipo di dedizione, invece ricordo che mi chiedevo dove l’universo, se era infinito, trovasse lo spazio, e cosa c’era dall’altra parte del muro se, invece, l’universo finiva. A dieci anni capitava che accompagnassi le mie amiche in chiesa la domenica. Mi sentivo imbarazzata: ignoravo il momento in cui dovevo mettermi in piedi o seduta, non conoscevo i testi delle preghiere, ero infastidita dalla pomposità dei vestiti e del latino. Assistetti anche a due funerali. Rimane in me la rabbia profonda che mi provocò il discorso del prete che ci incoraggiava ad essere felici – proprio così, essere felici – perché Dio aveva chiamato a sé un bambino morto di polmonite e una mia compagna di classe morta in un incidente automobilistico. Al liceo ero esentata dall’ora di religione: mi consideravano protestante per la mia origine inglese. In realtà mio padre mi portò una volta sola alla chiesa anglicana a Milano, per il giorno dei papaveri e dei carols, i canti di Natale. All’uscita, il parroco ci dette fiori di carta da mettere all’asola dei vestiti e ci strinse la mano. Percepii l’imbarazzo di mio padre che dovette confessare di non essere un frequentatore abituale delle messe.

Da adolescente, impegnata politicamente, mi sembrava impossibile comunicare con qualcuno che credeva in Dio. Ancora oggi mi sorprendo nel vedere persone che si fanno il segno della croce entrando in chiesa, partendo in aereo, attraversando un ponte, ascoltando una notizia drammatica, facendo un gol, o che si inginocchiano su un tappetino in mezzo alla strada in una direzione precisa. Sono, per me, segni distanti. Mi sento straniera in chiesa, in una moschea, in un tempio. È lo stesso anche quando assisto a cerimonie del Candomblé, la religione afro brasiliana, pur interessandomi alle rappresentazioni dei loro Orixá come forze della natura che si manifestano in danze ed energie, in pietre che crescono, in simboli che mi colpiscono. Capisco la necessità di rituali che ci uniscono attorno ai passaggi fondamentali della vita, sono consapevole della necessità sociale di avere un centro e un luogo d’incontro, conosco il bisogno di disciplina e di norme, intendo l’esigenza di sperare che qualcuno più forte di noi possa risolvere i nostri problemi, ma non per questo credo.

Credere, in teatro, è una problematica tecnica e concreta. Lo spettatore dovrebbe percepire la realtà e la rappresentazione come un’unica esperienza che contiene una verità personale a cui può relazionarsi. Credere o non credere all’attrice è un modo per esprimere un giudizio essenziale sulla qualità dell’interpretazione. L’attrice è totalmente presente in quello che fa ed ha la capacità di trasmetterlo in modo organico per lo spettatore: crea empatia. Nonostante la sua esperienza limitata come attrice, Gabriella crea empatia in me come regista. Le credo, in scena. Uso tutto quello che so per correggere ritmi, sincronia, impulsi, tonalità, spostamenti, per evocare immagini nelle sue azioni e montarle per creare letture divergenti. Ma, in fondo, conta solo se accetto il suo modo di essere presente in scena, se diventa “bella” ai miei occhi, se diventa l’alter-ego attraverso cui scopro la mia stessa intimità ascoltando quello che lei mi dice della sua.

È una realtà concreta, che tocco con mano attraverso gli occhi, l’udito, l’odorato, il senso cinestetico, e – quando mi offre il succo d’arancio – il gusto. Il gusto delle arance rivela anche per me la concretezza del pensiero mistico delle poetesse che Gabriella ha scelto.

La spremitura è apparsa nel processo perché cercavo un’attività pratica per Gabriella, che voleva accompagnare la recitazione delle poesie con azioni fisiche. Ho pensato al rituale del tè giapponese ed ho ricordato uno spettacolo che vidi al Festival Magdalena ’94 in cui dei limoni apparivano da un mucchio di terra marrone creando un grande effetto di contrasto di colori e consistenza. Il rituale del the, come quello delle arance, era un contenitore senza significati intrinseci che forniva la ripetizione precisa, uguale e semplice di azioni necessarie. L’idea del rituale delle arance era casuale, se riferita al senso, eppure decisa, se riferita alla concretezza teatrale.

Il gusto delle arance mi presentava la sfida professionale di passare dalle poesie composte di parole in cui c’è un io che crede, ma senza dramma, a una poesia drammatica di azioni che potesse interessare lo spettatore con la stessa sostanza di una storia. Dovevo interpretare la tensione mistica verso l’altro che non ha corpo con le tensioni reali del corpo dell’attrice. L’impeto ideale di chi si sposa in sogno, di chi si rivolge al Signore invisibile come all’amante vicino, doveva esistere in scena tramite reazioni fisiche udibili e visibili, sature di tensioni lievi e opposizioni che provocano visioni allo spettatore, e non a chi è in scena. Dovevo conquistare lo spettatore con un corpo dell’altro che non c’è, con una storia che non c’è, con parole di poesie che si riferiscono a un amore ideale, in cui la carne non è vera carne.

In cosa credo? Nella storia e nelle storie. Credo nell’intuizione e in alcune persone.

Anni fa, un’amica mi fece un massaggio guaritore. Il mio collo rotolava fra le sue mani, mentre rispondevo alle sue domande. Ad un certo punto ricordai un incidente: una tavola non fissata del palco mi aveva colpito al petto. Era successo in un periodo piuttosto infelice della mia vita. Avevo completamente dimenticato l’episodio, ma le cellule del mio corpo si erano passate l’informazione del trauma. Le mie cellule ricordavano più di me. Rimasi ancora più convinta che dovevo avere fiducia nell’intelligenza del mio corpo che pensa da solo.

Vestita di bianco con un capello colorato in testa, Teresa si addentra nel labirinto. La seguiamo. Ci accompagna il suono dei flauti e dei tamburi della musica andina. I compagni del gruppo Yuyachkani di Teresa suonano dall’esterno, i loro visi coperti da enormi copricapo di piume. Ognuno di noi ha in mano dei rami di fiori che depositiamo man mano lungo il percorso. Percorriamo un labirinto di pietre al cui centro si trova “L’occhio che piange”, una scultura a forma di occhio da cui fuoriesce un rivolo ininterrotto di acqua. Il labirinto si trova in un parco al centro di Lima, in Perù. È una delle tante iniziative in onore alla memoria.

Entrando il mio sguardo si fissa verso il basso: accanto al tracciato dove cammino ci sono centinaia di migliaia di pietre appoggiate ordinatamente una accanto all’altra, leggermente sovrapposte. Vi è una pietra per ogni morto vittima della guerra fra l’esercito peruviano e Sendero Luminoso, durata più di vent’anni e finita nel 2000. Alcune pietre hanno inciso il nome di una persona, l’età e l’anno in cui sono morti, altre pietre sono lisce, in attesa di ricevere un nome. Con lo sguardo abbassato continuo a camminare attanagliata dall’angoscia e da un senso di impotenza. Penso al giorno in cui, qualche mese prima, ho camminato per i campi vicino a Phnom Pen dove, assieme alle ossa umane, la terra faceva riapparire i vestiti delle migliaia e migliaia di cambogiani eliminati dai Khmer Rouge. Che fare? Che dire? Sembra che non ci sia risposta alle terribili perversioni della storia umana che sa solo ripetersi. Come combattere questo male comune che affratella paesi così distanti fra loro?

Davanti a me Teresa avanza, mi seguono molte altre donne che Yuyachkani ha riunito a Lima per un incontro di teatro. La musica andina ci ispira una scansione comune. Il percorso è lungo e tortuoso. Lo percorriamo piano, in silenzio, con un ritmo dettato da pensieri pesanti. Dopo circa quaranta minuti arrivo alla scultura nel centro, all’occhio che piange. Lo scruto a lungo, cercando di capire. Poi dobbiamo ripercorrere all’inverso tutto lo stesso percorso per uscire. Le pietre lungo il tracciato sono ora nella direzione opposta e non si possono più leggere le iscrizioni. Il mio sguardo si alza automaticamente, e con lo sguardo anche la testa si solleva, e seguendo la testa il mio corpo si pone eretto e riprende energia. Il ritmo dei miei passi aumenta. La distanza da percorrere e il semplice obbligo di mettere un piede davanti all’altro, di dover proseguire per raggiungere l’uscita, cambiano l'atteggiamento del mio corpo. Ricomincio a vedere in alto, davanti, fuori, a pensare al futuro. Ecco cosa possiamo e dobbiamo fare: persistere a camminare. È il camminare che decide.

Non credo nella necessità del teatro, ma nella possibilità che offre. La magia del teatro si rivela nell’obbligo della relazione sociale, nell’opportunità di sovvertire le norme senza andare contro le leggi, nell’unione di immaginazione e realtà, e nell’esigenza di ostinarsi a camminare. Il teatro oggi, con lo spettacolo Il gusto delle arance, mi offre un terreno d’incontro con poetesse mistiche. Erano delle ribelli, rifiutavano l’ortodossia, inseguivano un cammino individuale e rischioso, quando, con disciplina e lasciandosi andare nella preghiera, realizzavano una relazione particolare con il divino in terra. Io individuo la mia ribellione nel realizzare una relazione particolare con l’altro che chiamo spettatore.

Siamo seduti in un cerchio. Una trentina di giovani attori e attrici ascoltano le mie risposte alle loro domande. Mi chiedono di tecnica, di politica, di senso per immaginare quale cammino li attenda. Abbiamo lavorato con la voce per cercare assieme alcune risposte. Mi hanno chiesto perché io continuo a fare teatro dopo tanti anni nello stesso gruppo, l’Odin Teatret. Dentro di me, in un angolino nascosto, ripenso a come, pochi giorni prima, leggendo un’introduzione ad un’edizione brasiliana di saggi di Bertolt Brecht, ho intuito che per salvaguardare la memoria del gruppo e del suo regista Eugenio Barba, ho bisogno di una presenza che garantisca autorità a quello che faccio. Se Eugenio non fosse più all’Odin, per un motivo o per un altro, dove potrei rimanere accanto alla sua visione e accogliere la sua eredità senza la sua presenza? Ma non lo dico. Invece spiego che all’inizio, volendo risolvere la mia divisione fra lo studio di storia e filosofia e la pratica dello sport, il mio ideale era creare un’unità del mio essere. Per questo avevo scelto il teatro. Ma parlando e osservando i visi dei giovani attorno a me, vedendo le loro reazioni, ad un tratto capisco che invece il mio ideale è essere divisa. Vorrei che il mio essere possa dividersi per esistere in questi altri che ora mi guardano e mi ascoltano.

Un gruppo di persone è riunito sulle rocce davanti al mare. Siamo nel nord del Cile. Portano delle ceneri ed hanno molti fiori in mano. Ad un tratto un’onda impetuosa bagna il gruppo e porta via le ceneri. Commentano ridendo: “Maria ha voluto salutarci da grande attrice, ci ha lasciato con un ultimo atto plateale”. Ora Maria è dispersa nel mare. Maria Cánepa: a più di ottant’anni ha risposato per la seconda volta il suo uomo, Juan, di 30 anni più giovane di lei; ha insegnato dizione alle mogli dei pobladores arrestati durante la dittatura di Pinochet in modo che potessero parlare a voce alta alle riunioni; dopo essere stata dal parrucchiere per prepararsi, ha letto poesie al Festival Transit con il tema “Teatro-Donne-Generazioni”. La sua voce mi ha sempre commosso. Una giovane all’uscita della lettura di poesie mi ha detto: “Ho capito perché mia nonna usava sempre la tovaglia migliore la domenica. D’ora in poi cercherò di fare teatro sempre con quella qualità.”

Dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, una donna passeggia in riva al mare. È una spiaggia conosciuta. Lì ha camminato tante volte. Sulla sabbia si trova il capannone dove lavorava assieme al marito con un gruppo di giovani teatranti. Su questa stessa spiaggia preparava gli incontri e i festival di Magdalena Aotearoa, la rete di donne di teatro di cui è fondatrice e direttrice artistica. All’improvviso, quattro anni fa, il marito è morto. Ieri avrebbero festeggiato il suo compleanno. La figlia è adulta, ha lasciato casa, ha un lavoro e un compagno accanto a lei. Mentre cammina, la donna riflette su come togliersi la vita, lì vicino al mare. Sally Rodwell: portava sempre una bombetta e calze a strisce; aveva uno spiccato senso dell’umorismo, lottava come un leone per i propri diritti e quelli altrui; organizzava festival, redigeva riviste; era forte. Ma senza il suo compagno non ha potuto continuare a camminare.

Ho raggiunto l’età in cui muoiono le persone vicine. Nei momenti di disperazione mi dicono: “Non è possibile che non ci sia un aldilà, che non ci sia un’anima che si stacchi dal corpo, che una persona muoia e niente rimanga.” Credo ad un’anima chiamata memoria. Perché Maria e Sally rimangano vive voglio assumermi il compito di far sentire come loro siano vive in me. È uno dei motivi per cui faccio teatro.

Credo nell’energia, nella cenere che fertilizza la terra, nella conoscenza che trapassa le generazioni, nella storia che carica tutta l’esperienza umana, nelle storie che fanno vivere le persone nei ricordi che abbiamo di loro e del loro operato, nei sentimenti che ci legano al di là della presenza, nelle cellule del mio corpo che pensano e sentono, nelle donne che creano la loro storia di teatro, nella trascendenza del mio mestiere che a volte riesce ad avere un senso che perdura dopo che lo spettacolo è finito. Non credo nell’aldilà, ma nell’al di qua: essere unita e divisa al tempo stesso. Il mio al di qua sono gli altri: quelli venuti prima di me, quelli attorno a me, e quelli che seguiranno.

Il gusto delle arance continuerà a ripetere il suo rituale vuoto per dire qualcosa che ignoriamo perfino noi che l’abbiamo fatto crescere. Sarà ogni spettatore a dircelo in silenzio. Gusto significa essenza: si prepara con cura, si assapora a lungo e non se ne parla. È la presenza della memoria.

I quattro principi della Cerimonia del the

1) Armonia tra le persone e con la natura, armonia degli utensili e la maniera in cui vengono usati;
2) Rispetto verso tutte le cose e sincera gratitudine per la loro esistenza;
3) Purezza interiore e pulizia delle cose che ci circondano;
4) Tranquillità e pace della mente, conseguente alla realizzazione dei primi tre principi.

Sen no Rikyu, Maestro del tè, XVI secolo

 

Viaggi in auto con Julia

di Gabriella Sacco

[La storia sotterranea del teatro] scopre altre forze e altre dimensioni: l’impulso alla rivolta, l’incapacità di addomesticarsi allo spirito del tempo, la sete di trascendere la propria società e la propria persona. E la forza dell’innamoramento e dell’amore.
Come chiamare altrimenti che “amore” la passione che ha legato certi artisti di teatro ad altri, trasformando in vie praticabili quelle che al momento parevano, alle persone spassionate, idee ossessive di maniaci solitari?
La passione amorosa, nel nostro tempo, è vista sempre ad una sola dimensione, erotica. Per questo risulta pressoché impossibile comprendere in tutta la sua densità il termine ‘Maestro’. E risulta difficile andare al di là dell’ovvio, di concetti come influenza, metodi, fedeltà o infedeltà. Come se il Maestro non fosse colui che si rivela per sparire. Come se la sua azione consistesse tutta nell’insegnare e nel sedurre. E non fosse invece faticosa premessa alla scoperta della propria solitudine, creativa e senza lutto.

Eugenio Barba, La Terra di cenere e diamanti

You’re not alone, mi aveva detto Todd abbracciandomi da dietro mentre in lacrime risalivo la porta dell’ostello. Era uno di quegli incontri finiti male che mi avrebbero portato bene, una di quelle esperienze intense che cambia il corso degli eventi. Non avevo veramente capito il senso della sua affermazione. Lo capisco solo oggi, o meglio comprendo quale senso ha impresso al mio cammino.

Quando cerco le parole per descrivere la radice di questo spettacolo, mi viene in mente questa immagine e questa frase: You’re not alone; come un seme che germogliando ramifica nella memoria e nella presenza. Così proseguo il viaggio alla scoperta di punti di contatto con l’essere umano che mi fanno scoprire di essere viva. Una sensazione di forte vicinanza che ho provato sin dalla prima volta che ho incontrato Julia Varley. Una figura di bellezza e allegra saggezza. Cordiale ma non troppo, capace di lavorare con persone di ogni tipo. Morte e fanciulla, maestra e amica, dura e dolce, sfuggente e presente.

Non conosco altro modo di procedere, purtroppo o per fortuna, che attraverso l’amore. E quante volte mi sono innamorata: di persone di ogni tipo e facendo per loro scelte totali, folli, svolte ribaltanti. Altra rivoluzione è stata innamorarmi di Julia e scoprire una chiave d’amore che non vive di dimensione erotica e non ha corpo e mente di uomo ma di donna. Che poi nel profondo non importa, come dice Mr. Peanut: “L’anima dentro non è né uomo né donna”.

Sette anni fa, con 10 kg di meno, una gonna fru fru e scarpe con tacco dorato, sotto il cielo di Napoli, avevo detto a Metella con cui al tempo facevo teatro: “Ho scoperto che del teatro non m’importa nulla”. Una grande fandonia, certo, che mi ha permesso di iniziare un altro viaggio. Dopo pochi mesi ho incontrato la persona che avrei poi riconosciuto come mio Maestro spirituale: mi si è rivoltata la pelle. Mi sono profondamente innamorata. Ho cambiato vita. So che lui mi ha rapito il cuore, parlandomi come rispondendo a domande non espresse, coinvolgendomi in un agire senza riserve. In questi anni però il teatro non mi ha mai abbandonato veramente; sentivo la necessità di un mezzo per condividere con gli altri la rivoluzione interiore che attraversavo. Un teatro reinventato, a volte rimpicciolito, in stanze, terrazze, giardini, palchi, cortili.

Quando ho visto recitare Julia ne Il castello di Holstebro mi sono sentita re-investire da quella corrente di innamoramento per il teatro che porta alla dedizione. Così le ho chiesto di aiutarmi a dare forma a questo desiderio di condivisione, attraverso le poesie che nutrivano e accompagnavano il mio risveglio.

La prima volta che ho letto le poesie di Mirabai in pubblico mi è sembrato di volare. Il testo era in inglese e lo traducevo simultaneamente in italiano; perciò la mente era alquanto presa e lasciava il cuore viaggiare. Sono diventate vere le api e le nubi scure, la pioggia torrenziale, il flauto, l’abbandono, il sentirmi amata e commossa, lacerata nel cuore e pienamente soddisfatta. Da lì ho desiderato di poter passare questa sensazione di pienezza vitale ad altri. Avevo lavorato alla messinscena di altre opere poetiche, ma con Mirabai era diverso, la storia era la stessa in ogni poesia: un amato che non arriva, una separazione struggente, un dolore che colma e si ricongiunge alla gioia. Mirabai centellina ogni sensazione, ogni descrizione, con parole semplici, con immagini ordinarie che rivelano il regno dell’extraordinario. Non sapevo da dove cominciare.

Dopo un festival a Holstebro, in Danimarca, con maschere e balli caraibici, ho mostrato a Julia un’improvvisazione su due poesie. Mi ha osservato, mi ha fatto ripetere, e poi ha cominciato a esplorare idee e possibilità: oggetti semplici da usare in scena, testi di poetesse di altre tradizioni spirituali. Un festival per la festa della donna era l’occasione per un primo montaggio.

Julia era sempre impegnata in prove e tournée, difficile incontrarla di nuovo. Veniva in Italia per una dimostrazione e uno spettacolo a Modena, così ho pensato di andarla a trovare in quell’occasione. Ma intanto, doveva anche andare ogni giorno a Ravenna per l’organizzazione dello spettacolo Ur-Hamlet. E così io e Julia ci siamo incontrate in auto. Due giorni di Modena-Ravenna-Modena.

Da dove sono venute fuori le arance? In un punto dell’autostrada con lavori in corso segnalati da abbaglianti luci a intermittenza, Julia mi parla di limoni che escono da un cumulo di terra e creano una grande sorpresa nello spettatore. Mi tornano in bocca le spremute di canna da zucchero sulle strade di Puri, o i mapo, agrumi verdognoli ad ogni angolo di Vrindavana. Ecco le arance. Julia parla di una cerimonia con le arance simile, per esempio, al rituale del the. E aggiunge, le trovi dappertutto e in ogni momento dell’anno.

Poi, nella hall dell’albergo di Modena sono nate altre immagini: un narratore che racconta la storia con le mani e dopo ogni giravolta, come nel teatro danza indiano, rivela un nuovo personaggio; e ancora un’ombra da costruire e con cui dialogare in un gioco di apparizione e scomparsa.

Julia è ripartita e io ho cercato di fare il mio meglio: sono rimasta con le azioni da esplorare nello spazio e nelle quali far rivivere le parole, le nostre idee trasformate in oggetti con cui creare relazioni.

All’inizio le poesie mi parlavano, potevo leggerle da sola o per altri, sotto i cieli lunghi della Danimarca, in una sala illuminata a tempio o accovacciata sul letto, ma parlavano sempre a quella me interiore che dalle loro parole si sentiva ravvivata. Le partiture erano una festa – sequenze di azioni nate seguendo la voce registrata del mio Maestro spirituale che leggeva poesie di Vidyapati oppure la mia memoria di musiche di flauti e pavoni nelle notti/mattine dell’India. Le ripetevo e ogni volta si arricchivano, portavano più vita, più ispirazione, più espansione. Mettendo insieme parole e azioni, ho trovato connessioni precise che mi sono sembrate esaltanti. Man mano, con la ripetizione, le connessioni sono diventate però schemi e la vita è rimasta schiacciata. Come si dice, ‘avevo perso la poesia’.

Con la sua speciale attenzione, professionale e umana, Julia se n’è accorta. Dopo una pausa di silenzio alla fine della prova ha detto: “Così intimo non funziona, devi ritrovare il gusto, sapere a chi parli”. Nonostante le sue parole, mi sembrava chiaro che avesse capito che era nell’intimo che qualcosa non funzionava; che le parole e le azioni che prima servivano da mezzo per una connessione al cuore che vi riversava la vita, ora erano un fine. Mi ero incastrata, intricata negli oggetti di scena che ogni giorno di più mi sembravano innumerevoli, e grandi, pesanti, complicati; oppure troppo piccoli, tecnici, fastidiosi. Gli unici pensieri nella mia mente mentre ripetevo la sequenza erano: ‘ora devo posare il coltello’, ‘dove lascio il telo?’, ‘mi sono dimenticata di tagliare le arance’, e così via, una catena infinita di osservazioni quasi paranoiche su ciò che avveniva in scena. Ma io così preoccupata per questi dettagli, perdo il gusto!, mi dicevo come una bimba capricciosa e indispettita.

Funzionava? Non so. Julia una volta mi ha detto: “Almeno finché eri preoccupata per tutti questi dettagli eri viva, attenta, partecipe, ora non ci sei più”. Era arrivata un’altra fase: quella in cui ormai avevo cominciato a intravedere una via per gestire e sostenere il peso e la precisione della partitura fisica e vocale, ma proprio per questo sembrava che facessi tutto senza ‘esserci’.

Vivevo l’ossessione espressa nella domanda che avevo posto a Julia la prima volta che avevo lavorato con lei: “Ma a cosa pongo attenzione, a quello che sento dentro o a come risulta fuori?”; Julia mi aveva risposto parlandomi di equilibrio, con parole che a me erano suonate come quelle della Bhagavad-gita: “Compi l’azione rinunciando ad ogni attaccamento; sii eguale nel successo e nell’insuccesso: il perfetto equilibrio interiore si chiama yoga.”

Gli oggetti hanno richiesto un’incredibile attenzione; ore, giorni, settimane spesi a scegliere stoffe e addobbi, a cucire, dipingere. In seguito, ancora più difficile è stato trovare una relazione con questi oggetti e attraverso di essi la vita in scena; ma anche, trovare in essi dei partner di scena necessari. ‘Magicamente’, in questo processo traslato, più cresce la mia cura e attenzione verso gli oggetti, più cresce la mia relazione con le azioni e il senso del testo.

Una volta iniziato a lavorare sulle poesie, Julia mi aveva subito suggerito di aprire le prove ad altri in modo da relazionarmi con qualcuno sin dall’inizio del processo. Così ho cercato di fare, coinvolgendo amici, conoscenti, familiari e sconosciuti. Mi sono stupita quando le persone entusiaste mi riportavano dello spettacolo quella storia celata che avevo paura non si cogliesse. Ho cominciato a vedere che dando agli altri io acquisivo senso, non nel coinvolgimento emotivo ma nella reale condivisione.

Sotto la pioggia di Puri, come piovesse cielo, come piovesse luce, mi sono spuntate in mente alcune parole di Mirabai: “Che posso fare? / Non ho risorse né ali per volare / il mondo è illusione imbroglio / oppure solo sogno / l’amato è un serpente che mi ha morso la mano”; di nuovo recuperavo la poesia che mi commuove, e ho cercato di custodire quel momento interiore per non disperderlo nello spazio scenico.

Grazie a Julia, non ho solo costruito un montaggio di parole, azioni e oggetti, ma una via per cercare relazioni. Con il tempo, altri incontri e i suoi suggerimenti, lentamente le relazioni sorgono e decadono, e le poesie acquistano vita. Soprattutto, scopro che l’attore comunica di più quando è concentrato su più livelli, quando la sua attenzione non è verso la propria emotività ma verso gli altri, quando la sua motivazione non è più l’esperienza personale ma il dono. Così la mia problematica di attrice si collega ad un percorso personale, in cui sto ancora cercando la strada per unire profondità e condivisione.